sâmbătă, 14 august 2010

Ludovico ARIOSTO -ORLANDO FURIOSO- CANTO 1

 

 ORLANDO NEBUNUL - CÎNTUL 1

1 Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
     le cortesie, l’audaci imprese io canto,
     che furo al tempo che passaro i Mori
     d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
     seguendo l’ire e i giovenil furori
     d’Agramante lor re, che si diè vanto
     di vendicar la morte di Troiano
     sopra re Carlo imperator romano.

2 Dirò d’Orlando in un medesmo tratto
     cosa non detta in prosa mai, né in rima:
     che per amor venne in furore e matto,
     d’uom che sì saggio era stimato prima;
     se da colei che tal quasi m’ha fatto,
     che ‘l poco ingegno ad or ad or mi lima,
     me ne sarà però tanto concesso,
     che mi basti a finir quanto ho promesso.

3 Piacciavi, generosa Erculea prole,
     ornamento e splendor del secol nostro,
     Ippolito, aggradir questo che vuole
     e darvi sol può l’umil servo vostro.
     Quel ch’io vi debbo, posso di parole
     pagare in parte e d’opera d’inchiostro;
     né che poco io vi dia da imputar sono,
     che quanto io posso dar, tutto vi dono.

4 Voi sentirete fra i più degni eroi,
     che nominar con laude m’apparecchio,
     ricordar quel Ruggier, che fu di voi
     e de’ vostri avi illustri il ceppo vecchio.
     L’alto valore e’ chiari gesti suoi
     vi farò udir, se voi mi date orecchio,
     e vostri alti pensieri cedino un poco,
     sì che tra lor miei versi abbiano loco.

5 Orlando, che gran tempo innamorato
     fu de la bella Angelica, e per lei
     in India, in Media, in Tartaria lasciato
     avea infiniti ed immortal trofei,
     in Ponente con essa era tornato,
     dove sotto i gran monti Pirenei
     con la gente di Francia e de Lamagna
     re Carlo era attendato alla campagna,

6 per far al re Marsilio e al re Agramante
     battersi ancor del folle ardir la guancia,
     d’aver condotto, l’un, d’Africa quante
     genti erano atte a portar spada e lancia;
     l’altro, d’aver spinta la Spagna inante
     a destruzion del bel regno di Francia.
     E così Orlando arrivò quivi a punto:
     ma tosto si pentì d’esservi giunto:

7 Che vi fu tolta la sua donna poi:
     ecco il giudicio uman come spesso erra!
     Quella che dagli esperi ai liti eoi
     avea difesa con sì lunga guerra,
     or tolta gli è fra tanti amici suoi,
     senza spada adoprar, ne la sua terra.
     Il savio imperator, ch’estinguer volse
     un grave incendio, fu che gli la tolse.

8 Nata pochi dì inanzi era una gara
     tra il conte Orlando e il suo cugin Rinaldo,
     che entrambi avean per la bellezza rara
     d’amoroso disio l’animo caldo.
     Carlo, che non avea tal lite cara,
     che gli rendea l’aiuto lor men saldo,
     questa donzella, che la causa n’era,
     tolse, e diè in mano al duca di Bavera;

9 in premio promettendola a quel d’essi,
     ch’in quel conflitto, in quella gran giornata,
     degl’infideli più copia uccidessi,
     e di sua man prestasse opra più grata.
     Contrari ai voti poi furo i successi;
     ch’in fuga andò la gente battezzata,
     e con molti altri fu ‘l duca prigione,
     e restò abbandonato il padiglione.

10 Dove, poi che rimase la donzella
     ch’esser dovea del vincitor mercede,
     inanzi al caso era salita in sella,
     e quando bisognò le spalle diede,
     presaga che quel giorno esser rubella
     dovea Fortuna alla cristiana fede:
     entrò in un bosco, e ne la stretta via
     rincontrò un cavallier ch’a piè venìa.

11 Indosso la corazza, l’elmo in testa,
     la spada al fianco, e in braccio avea lo scudo;
     e più leggier correa per la foresta,
     ch’al pallio rosso il villan mezzo ignudo.
     Timida pastorella mai sì presta
     non volse piede inanzi a serpe crudo,
     come Angelica tosto il freno torse,
     che del guerrier, ch’a piè venìa, s’accorse.

12 Era costui quel paladin gagliardo,
     figliuol d’Amon, signor di Montalbano,
     a cui pur dianzi il suo destrier Baiardo
     per strano caso uscito era di mano.
     Come alla donna egli drizzò lo sguardo,
     riconobbe, quantunque di lontano,
     l’angelico sembiante e quel bel volto
     ch’all’amorose reti il tenea involto.

13 La donna il palafreno a dietro volta,
     e per la selva a tutta briglia il caccia;
     né per la rara più che per la folta,
     la più sicura e miglior via procaccia:
     ma pallida, tremando, e di sé tolta,
     lascia cura al destrier che la via faccia.
     Di sù di giù, ne l’alta selva fiera
     tanto girò, che venne a una riviera.

14 Su la riviera Ferraù trovosse
     di sudor pieno e tutto polveroso.
     Da la battaglia dianzi lo rimosse
     un gran disio di bere e di riposo;
     e poi, mal grado suo, quivi fermosse,
     perché, de l’acqua ingordo e frettoloso,
     l’elmo nel fiume si lasciò cadere,
     né l’avea potuto anco riavere.

15 Quanto potea più forte, ne veniva
     gridando la donzella ispaventata.
     A quella voce salta in su la riva
     il Saracino, e nel viso la guata;
     e la conosce subito ch’arriva,
     ben che di timor pallida e turbata,
     e sien più dì che non n’udì novella,
     che senza dubbio ell’è Angelica bella.

16 E perché era cortese, e n’avea forse
     non men de’ dui cugini il petto caldo,
     l’aiuto che potea tutto le porse,
     pur come avesse l’elmo, ardito e baldo:
     trasse la spada, e minacciando corse
     dove poco di lui temea Rinaldo.
     Più volte s’eran già non pur veduti,
     m’al paragon de l’arme conosciuti.

17 Cominciar quivi una crudel battaglia,
     come a piè si trovar, coi brandi ignudi:
     non che le piastre e la minuta maglia,
     ma ai colpi lor non reggerian gl’incudi.
     Or, mentre l’un con l’altro si travaglia,
     bisogna al palafren che ‘l passo studi;
     che quanto può menar de le calcagna,
     colei lo caccia al bosco e alla campagna.

18 Poi che s’affaticar gran pezzo invano
     i dui guerrier per por l’un l’altro sotto,
     quando non meno era con l’arme in mano
     questo di quel, né quel di questo dotto;
     fu primiero il signor di Montalbano,
     ch’al cavallier di Spagna fece motto,
     sì come quel ch’ha nel cuor tanto fuoco,
     che tutto n’arde e non ritrova loco.

19 Disse al pagan: – Me sol creduto avrai,
     e pur avrai te meco ancora offeso:
     se questo avvien perché i fulgenti rai
     del nuovo sol t’abbino il petto acceso,
     di farmi qui tardar che guadagno hai?
     che quando ancor tu m’abbi morto o preso,
     non però tua la bella donna fia;
     che, mentre noi tardiam, se ne va via.

20 Quanto fia meglio, amandola tu ancora,
     che tu le venga a traversar la strada,
     a ritenerla e farle far dimora,
     prima che più lontana se ne vada!
     Come l’avremo in potestate, allora
     di chi esser de’ si provi con la spada:
     non so altrimenti, dopo un lungo affanno,
     che possa riuscirci altro che danno. -

21 Al pagan la proposta non dispiacque:
     così fu differita la tenzone;
     e tal tregua tra lor subito nacque,
     sì l’odio e l’ira va in oblivione,
     che ‘l pagano al partir da le fresche acque
     non lasciò a piedi il buon figliuol d’Amone:
     con preghi invita, ed al fin toglie in groppa,
     e per l’orme d’Angelica galoppa.

22 Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!
     Eran rivali, eran di fé diversi,
     e si sentian degli aspri colpi iniqui
     per tutta la persona anco dolersi;
     e pur per selve oscure e calli obliqui
     insieme van senza sospetto aversi.
     Da quattro sproni il destrier punto arriva
     ove una strada in due si dipartiva.

23 E come quei che non sapean se l’una
     o l’altra via facesse la donzella
     (però che senza differenza alcuna
     apparia in amendue l’orma novella),
     si messero ad arbitrio di fortuna,
     Rinaldo a questa, il Saracino a quella.
     Pel bosco Ferraù molto s’avvolse,
     e ritrovossi al fine onde si tolse.

24 Pur si ritrova ancor su la rivera,
     là dove l’elmo gli cascò ne l’onde.
     Poi che la donna ritrovar non spera,
     per aver l’elmo che ‘l fiume gli asconde,
     in quella parte onde caduto gli era
     discende ne l’estreme umide sponde:
     ma quello era sì fitto ne la sabbia,
     che molto avrà da far prima che l’abbia.

25 Con un gran ramo d’albero rimondo,
     di ch’avea fatto una pertica lunga,
     tenta il fiume e ricerca sino al fondo,
     né loco lascia ove non batta e punga.
     Mentre con la maggior stizza del mondo
     tanto l’indugio suo quivi prolunga,
     vede di mezzo il fiume un cavalliero
     insino al petto uscir, d’aspetto fiero.

26 Era, fuor che la testa, tutto armato,
     ed avea un elmo ne la destra mano:
     avea il medesimo elmo che cercato
     da Ferraù fu lungamente invano.
     A Ferraù parlò come adirato,
     e disse: – Ah mancator di fé, marano!
     perché di lasciar l’elmo anche t’aggrevi,
     che render già gran tempo mi dovevi?

27 Ricordati, pagan, quando uccidesti
     d’Angelica il fratel (che son quell’io),
     dietro all’altr’arme tu mi promettesti
     gittar fra pochi dì l’elmo nel rio.
     Or se Fortuna (quel che non volesti
     far tu) pone ad effetto il voler mio,
     non ti turbare; e se turbar ti déi,
     turbati che di fé mancato sei.

28 Ma se desir pur hai d’un elmo fino,
     trovane un altro, ed abbil con più onore;
     un tal ne porta Orlando paladino,
     un tal Rinaldo, e forse anco migliore:
     l’un fu d’Almonte, e l’altro di Mambrino:
     acquista un di quei dui col tuo valore;
     e questo, ch’hai già di lasciarmi detto,
     farai bene a lasciarmi con effetto. -

29 All’apparir che fece all’improvviso
     de l’acqua l’ombra, ogni pelo arricciossi,
     e scolorossi al Saracino il viso;
     la voce, ch’era per uscir, fermossi.
     Udendo poi da l’Argalia, ch’ucciso
     quivi avea già (che l’Argalia nomossi)
     la rotta fede così improverarse,
     di scorno e d’ira dentro e di fuor arse.

30 Né tempo avendo a pensar altra scusa,
     e conoscendo ben che ‘l ver gli disse,
     restò senza risposta a bocca chiusa;
     ma la vergogna il cor sì gli trafisse,
     che giurò per la vita di Lanfusa
     non voler mai ch’altro elmo lo coprisse,
     se non quel buono che già in Aspramonte
     trasse dal capo Orlando al fiero Almonte.

31 E servò meglio questo giuramento,
     che non avea quell’altro fatto prima.
     Quindi si parte tanto malcontento,
     che molti giorni poi si rode e lima.
     Sol di cercare è il paladino intento
     di qua di là, dove trovarlo stima.
     Altra ventura al buon Rinaldo accade,
     che da costui tenea diverse strade.

32 Non molto va Rinaldo, che si vede
     saltare inanzi il suo destrier feroce:
     - Ferma, Baiardo mio, deh, ferma il piede!
     che l’esser senza te troppo mi nuoce. -
     Per questo il destrier sordo, a lui non riede
     anzi più se ne va sempre veloce.
     Segue Rinaldo, e d’ira si distrugge:
     ma seguitiamo Angelica che fugge.

33 Fugge tra selve spaventose e scure,
     per lochi inabitati, ermi e selvaggi.
     Il mover de le frondi e di verzure,
     che di cerri sentia, d’olmi e di faggi,
     fatto le avea con subite paure
     trovar di qua di là strani viaggi;
     ch’ad ogni ombra veduta o in monte o in valle,
     temea Rinaldo aver sempre alle spalle.

34 Qual pargoletta o damma o capriuola,
     che tra le fronde del natio boschetto
     alla madre veduta abbia la gola
     stringer dal pardo, o aprirle ‘l fianco o ‘l petto,
     di selva in selva dal crudel s’invola,
     e di paura trema e di sospetto:
     ad ogni sterpo che passando tocca,
     esser si crede all’empia fera in bocca.

35 Quel dì e la notte a mezzo l’altro giorno
     s’andò aggirando, e non sapeva dove.
     Trovossi al fin in un boschetto adorno,
     che lievemente la fresca aura muove.
     Duo chiari rivi, mormorando intorno,
     sempre l’erbe vi fan tenere e nuove;
     e rendea ad ascoltar dolce concento,
     rotto tra picciol sassi, il correr lento.

36 Quivi parendo a lei d’esser sicura
     e lontana a Rinaldo mille miglia,
     da la via stanca e da l’estiva arsura,
     di riposare alquanto si consiglia:
     tra’ fiori smonta, e lascia alla pastura
     andare il palafren senza la briglia;
     e quel va errando intorno alle chiare onde,
     che di fresca erba avean piene le sponde.

37 Ecco non lungi un bel cespuglio vede
     di prun fioriti e di vermiglie rose,
     che de le liquide onde al specchio siede,
     chiuso dal sol fra l’alte querce ombrose;
     così voto nel mezzo, che concede
     fresca stanza fra l’ombre più nascose:
     e la foglia coi rami in modo è mista,
     che ‘l sol non v’entra, non che minor vista.

38 Dentro letto vi fan tenere erbette,
     ch’invitano a posar chi s’appresenta.
     La bella donna in mezzo a quel si mette,
     ivi si corca ed ivi s’addormenta.
     Ma non per lungo spazio così stette,
     che un calpestio le par che venir senta:
     cheta si leva e appresso alla riviera
     vede ch’armato un cavallier giunt’era.

39 Se gli è amico o nemico non comprende:
     tema e speranza il dubbio cor le scuote;
     e di quella aventura il fine attende,
     né pur d’un sol sospir l’aria percuote.
     Il cavalliero in riva al fiume scende
     sopra l’un braccio a riposar le gote;
     e in un suo gran pensier tanto penètra,
     che par cangiato in insensibil pietra.

40 Pensoso più d’un’ora a capo basso
     stette, Signore, il cavallier dolente;
     poi cominciò con suono afflitto e lasso
     a lamentarsi sì soavemente,
     ch’avrebbe di pietà spezzato un sasso,
     una tigre crudel fatta clemente.
     Sospirante piangea, tal ch’un ruscello
     parean le guance, e ‘l petto un Mongibello.

41 – Pensier (dicea) che ‘l cor m’agghiacci ed ardi,
     e causi il duol che sempre il rode e lima,
     che debbo far, poi ch’io son giunto tardi,
     e ch’altri a corre il frutto è andato prima?
     a pena avuto io n’ho parole e sguardi,
     ed altri n’ha tutta la spoglia opima.
     Se non ne tocca a me frutto né fiore,
     perché affligger per lei mi vuo’ più il core?

42 La verginella è simile alla rosa,
     ch’in bel giardin su la nativa spina
     mentre sola e sicura si riposa,
     né gregge né pastor se le avvicina;
     l’aura soave e l’alba rugiadosa,
     l’acqua, la terra al suo favor s’inchina:
     gioveni vaghi e donne inamorate
     amano averne e seni e tempie ornate.

43 Ma non sì tosto dal materno stelo
     rimossa viene e dal suo ceppo verde,
     che quanto avea dagli uomini e dal cielo
     favor, grazia e bellezza, tutto perde.
     La vergine che ‘l fior, di che più zelo
     che de’ begli occhi e de la vita aver de’,
     lascia altrui corre, il pregio ch’avea inanti
     perde nel cor di tutti gli altri amanti.

44 Sia Vile agli altri, e da quel solo amata
     a cui di sé fece sì larga copia.
     Ah, Fortuna crudel, Fortuna ingrata!
     trionfan gli altri, e ne moro io d’inopia.
     Dunque esser può che non mi sia più grata?
     dunque io posso lasciar mia vita propia?
     Ah più tosto oggi manchino i dì miei,
     ch’io viva più, s’amar non debbo lei! -

45 Se mi domanda alcun chi costui sia,
     che versa sopra il rio lacrime tante,
     io dirò ch’egli è il re di Circassia,
     quel d’amor travagliato Sacripante;
     io dirò ancor, che di sua pena ria
     sia prima e sola causa essere amante,
     è pur un degli amanti di costei:
     e ben riconosciuto fu da lei.

46 Appresso ove il sol cade, per suo amore
     venuto era dal capo d’Oriente;
     che seppe in India con suo gran dolore,
     come ella Orlando sequitò in Ponente:
     poi seppe in Francia che l’imperatore
     sequestrata l’avea da l’altra gente,
     per darla all’un de’ duo che contra il Moro
     più quel giorno aiutasse i Gigli d’oro.

47 Stato era in campo, e inteso avea di quella
     rotta crudel che dianzi ebbe re Carlo:
     cercò vestigio d’Angelica bella,
     né potuto avea ancora ritrovarlo.
     Questa è dunque la trista e ria novella
     che d’amorosa doglia fa penarlo,
     affligger, lamentare, e dir parole
     che di pietà potrian fermare il sole.

48 Mentre costui così s’affligge e duole,
     e fa degli occhi suoi tepida fonte,
     e dice queste e molte altre parole,
     che non mi par bisogno esser racconte;
     l’aventurosa sua fortuna vuole
     ch’alle orecchie d’Angelica sian conte:
     e così quel ne viene a un’ora, a un punto,
     ch’in mille anni o mai più non è raggiunto.

49 Con molta attenzion la bella donna
     al pianto, alle parole, al modo attende
     di colui ch’in amarla non assonna;
     né questo è il primo dì ch’ella l’intende:
     ma dura e fredda più d’una colonna,
     ad averne pietà non però scende,
     come colei c’ha tutto il mondo a sdegno,
     e non le par ch’alcun sia di lei degno.

50 Pur tra quei boschi il ritrovarsi sola
     le fa pensar di tor costui per guida;
     che chi ne l’acqua sta fin alla gola
     ben è ostinato se mercé non grida.
     Se questa occasione or se l’invola,
     non troverà mai più scorta sì fida;
     ch’a lunga prova conosciuto inante
     s’avea quel re fedel sopra ogni amante.

51 Ma non però disegna de l’affanno
     che lo distrugge alleggierir chi l’ama,
     e ristorar d’ogni passato danno
     con quel piacer ch’ogni amator più brama:
     ma alcuna finzione, alcuno inganno
     di tenerlo in speranza ordisce e trama;
     tanto ch’a quel bisogno se ne serva,
     poi torni all’uso suo dura e proterva.

52 E fuor di quel cespuglio oscuro e cieco
     fa di sé bella ed improvvisa mostra,
     come di selva o fuor d’ombroso speco
     Diana in scena o Citerea si mostra;
     e dice all’apparir: – Pace sia teco;
     teco difenda Dio la fama nostra,
     e non comporti, contra ogni ragione,
     ch’abbi di me sì falsa opinione. -

53 Non mai con tanto gaudio o stupor tanto
     levò gli occhi al figliuolo alcuna madre,
     ch’avea per morto sospirato e pianto,
     poi che senza esso udì tornar le squadre;
     con quanto gaudio il Saracin, con quanto
     stupor l’alta presenza e le leggiadre
     maniere, e il vero angelico sembiante,
     improviso apparir si vide inante.

54 Pieno di dolce e d’amoroso affetto,
     alla sua donna, alla sua diva corse,
     che con le braccia al collo il tenne stretto,
     quel ch’al Catai non avria fatto forse.
     Al patrio regno, al suo natio ricetto,
     seco avendo costui, l’animo torse:
     subito in lei s’avviva la speranza
     di tosto riveder sua ricca stanza.

55 Ella gli rende conto pienamente
     dal giorno che mandato fu da lei
     a domandar soccorso in Oriente
     al re de’ Sericani e Nabatei;
     e come Orlando la guardò sovente
     da morte, da disnor, da casi rei:
     e che ‘l fior virginal così avea salvo,
     come se lo portò del materno alvo.

56 Forse era ver, ma non però credibile
     a chi del senso suo fosse signore;
     ma parve facilmente a lui possibile,
     ch’era perduto in via più grave errore.
     Quel che l’uom vede, Amor gli fa invisibiIe,
     e l’invisibil fa vedere Amore.
     Questo creduto fu; che ‘l miser suole
     dar facile credenza a quel che vuole.

57 – Se mal si seppe il cavallier d’Anglante
     pigliar per sua sciocchezza il tempo buono,
     il danno se ne avrà; che da qui inante
     nol chiamerà Fortuna a sì gran dono
     (tra sé tacito parla Sacripante):
     ma io per imitarlo già non sono,
     che lasci tanto ben che m’è concesso,
     e ch’a doler poi m’abbia di me stesso.

58 Corrò la fresca e matutina rosa,
     che, tardando, stagion perder potria.
     So ben ch’a donna non si può far cosa
     che più soave e più piacevol sia,
     ancor che se ne mostri disdegnosa,
     e talor mesta e flebil se ne stia:
     non starò per repulsa o finto sdegno,
     ch’io non adombri e incarni il mio disegno. -

59 Così dice egli; e mentre s’apparecchia
     al dolce assalto, un gran rumor che suona
     dal vicin bosco gl’intruona l’orecchia,
     sì che mal grado l’impresa abbandona:
     e si pon l’elmo (ch’avea usanza vecchia
     di portar sempre armata la persona),
     viene al destriero e gli ripon la briglia,
     rimonta in sella e la sua lancia piglia.

60 Ecco pel bosco un cavallier venire,
     il cui sembiante è d’uom gagliardo e fiero:
     candido come nieve è il suo vestire,
     un bianco pennoncello ha per cimiero.
     Re Sacripante, che non può patire
     che quel con l’importuno suo sentiero
     gli abbia interrotto il gran piacer ch’avea,
     con vista il guarda disdegnosa e rea.

61 Come è più appresso, lo sfida a battaglia;
     che crede ben fargli votar l’arcione.
     Quel che di lui non stimo già che vaglia
     un grano meno, e ne fa paragone,
     l’orgogliose minacce a mezzo taglia,
     sprona a un tempo, e la lancia in resta pone.
     Sacripante ritorna con tempesta,
     e corronsi a ferir testa per testa.

62 Non si vanno i leoni o i tori in salto
     a dar di petto, ad accozzar sì crudi,
     sì come i duo guerrieri al fiero assalto,
     che parimente si passar li scudi.
     Fe’ lo scontro tremar dal basso all’alto
     l’erbose valli insino ai poggi ignudi;
     e ben giovò che fur buoni e perfetti
     gli osberghi sì, che lor salvaro i petti.

63 Già non fero i cavalli un correr torto,
     anzi cozzaro a guisa di montoni:
     quel del guerrier pagan morì di corto,
     ch’era vivendo in numero de’ buoni:
     quell’altro cadde ancor, ma fu risorto
     tosto ch’al fianco si sentì gli sproni.
     Quel del re saracin restò disteso
     adosso al suo signor con tutto il peso.

64 L’incognito campion che restò ritto,
     e vide l’altro col cavallo in terra,
     stimando avere assai di quel conflitto,
     non si curò di rinovar la guerra;
     ma dove per la selva è il camin dritto,
     correndo a tutta briglia si disserra;
     e prima che di briga esca il pagano,
     un miglio o poco meno è già lontano.

65 Qual istordito e stupido aratore,
     poi ch’è passato il fulmine, si leva
     di là dove l’altissimo fragore
     appresso ai morti buoi steso l’aveva;
     che mira senza fronde e senza onore
     il pin che di lontan veder soleva:
     tal si levò il pagano a piè rimaso,
     Angelica presente al duro caso.

66 Sospira e geme, non perché l’annoi
     che piede o braccio s’abbi rotto o mosso,
     ma per vergogna sola, onde a’ dì suoi
     né pria né dopo il viso ebbe sì rosso:
     e più, ch’oltre il cader, sua donna poi
     fu che gli tolse il gran peso d’adosso.
     Muto restava, mi cred’io, se quella
     non gli rendea la voce e la favella.

67 – Deh! (diss’ella) signor, non vi rincresca!
     che del cader non è la colpa vostra,
     ma del cavallo, a cui riposo ed esca
     meglio si convenia che nuova giostra.
     Né perciò quel guerrier sua gloria accresca
     che d’esser stato il perditor dimostra:
     così, per quel ch’io me ne sappia, stimo,
     quando a lasciare il campo è stato primo. -

68 Mentre costei conforta il Saracino,
     ecco col corno e con la tasca al fianco,
     galoppando venir sopra un ronzino
     un messagger che parea afflitto e stanco;
     che come a Sacripante fu vicino,
     gli domandò se con un scudo bianco
     e con un bianco pennoncello in testa
     vide un guerrier passar per la foresta.

69 Rispose Sacripante: – Come vedi,
     m’ha qui abbattuto, e se ne parte or ora;
     e perch’io sappia chi m’ha messo a piedi,
     fa che per nome io lo conosca ancora. -
     Ed egli a lui: – Di quel che tu mi chiedi
     io ti satisfarò senza dimora:
     tu dei saper che ti levò di sella
     l’alto valor d’una gentil donzella.

70 Ella è gagliarda ed è più bella molto;
     né il suo famoso nome anco t’ascondo:
     fu Bradamante quella che t’ha tolto
     quanto onor mai tu guadagnasti al mondo. -
     Poi ch’ebbe così detto, a freno sciolto
     il Saracin lasciò poco giocondo,
     che non sa che si dica o che si faccia,
     tutto avvampato di vergogna in faccia.

71 Poi che gran pezzo al caso intervenuto
     ebbe pensato invano, e finalmente
     si trovò da una femina abbattuto,
     che pensandovi più, più dolor sente;
     montò l’altro destrier, tacito e muto:
     e senza far parola, chetamente
     tolse Angelica in groppa, e differilla
     a più lieto uso, a stanza più tranquilla.

72 Non furo iti due miglia, che sonare
     odon la selva che li cinge intorno,
     con tal rumore e strepito, che pare
     che triemi la foresta d’ogn’intorno;
     e poco dopo un gran destrier n’appare,
     d’oro guernito e riccamente adorno,
     che salta macchie e rivi, ed a fracasso
     arbori mena e ciò che vieta il passo.

73 – Se l’intricati rami e l’aer fosco,
     (disse la donna) agli occhi non contende,
     Baiardo è quel destrier ch’in mezzo il bosco
     con tal rumor la chiusa via si fende.
     Questo è certo Baiardo, io ‘l riconosco:
     deh, come ben nostro bisogno intende!
     ch’un sol ronzin per dui saria mal atto,
     e ne viene egli a satisfarci ratto. -

74 Smonta il Circasso ed al destrier s’accosta,
     e si pensava dar di mano al freno.
     Colle groppe il destrier gli fa risposta,
     che fu presto al girar come un baleno;
     ma non arriva dove i calci apposta:
     misero il cavallier se giungea a pieno!
     che nei calci tal possa avea il cavallo,
     ch’avria spezzato un monte di metallo.

75 Indi va mansueto alla donzella,
     con umile sembiante e gesto umano,
     come intorno al padrone il can saltella,
     che sia duo giorni o tre stato lontano.
     Baiardo ancora avea memoria d’ella,
     ch’in Albracca il servia già di sua mano
     nel tempo che da lei tanto era amato
     Rinaldo, allor crudele, allor ingrato.

76 Con la sinistra man prende la briglia,
     con l’altra tocca e palpa il collo e ‘l petto:
     quel destrier, ch’avea ingegno a maraviglia,
     a lei, come un agnel, si fa suggetto.
     Intanto Sacripante il tempo piglia:
     monta Baiardo e l’urta e lo tien stretto.
     Del ronzin disgravato la donzella
     lascia la groppa, e si ripone in sella.

77 Poi rivolgendo a caso gli occhi, mira
     venir sonando d’arme un gran pedone.
     Tutta s’avvampa di dispetto e d’ira,
     che conosce il figliuol del duca Amone.
     Più che sua vita l’ama egli e desira;
     l’odia e fugge ella più che gru falcone.
     Già fu ch’esso odiò lei più che la morte;
     ella amò lui: or han cangiato sorte.

78 E questo hanno causato due fontane
     che di diverso effetto hanno liquore,
     ambe in Ardenna, e non sono lontane:
     d’amoroso disio l’una empie il core;
     chi bee de l’altra, senza amor rimane,
     e volge tutto in ghiaccio il primo ardore.
     Rinaldo gustò d’una, e amor lo strugge;
     Angelica de l’altra, e l’odia e fugge.

79 Quel liquor di secreto venen misto,
     che muta in odio l’amorosa cura,
     fa che la donna che Rinaldo ha visto,
     nei sereni occhi subito s’oscura;
     e con voce tremante e viso tristo
     supplica Sacripante e lo scongiura
     che quel guerrier più appresso non attenda,
     ma ch’insieme con lei la fuga prenda.

80 – Son dunque (disse il Saracino), sono
     dunque in sì poco credito con vui,
     che mi stimiate inutile e non buono
     da potervi difender da costui?
     Le battaglie d’Albracca già vi sono
     di mente uscite, e la notte ch’io fui
     per la salute vostra, solo e nudo,
     contra Agricane e tutto il campo, scudo? -

81 Non risponde ella, e non sa che si faccia,
     perché Rinaldo ormai l’è troppo appresso,
     che da lontan al Saracin minaccia,
     come vide il cavallo e conobbe esso,
     e riconohbe l’angelica faccia
     che l’amoroso incendio in cor gli ha messo.
     Quel che seguì tra questi duo superbi
     vo’ che per l’altro canto si riserbi. 


ORLANDO NEBUNUL - PREFAŢĂ

Jorge Luis BORGES - ARIOSTO ŞI ARABII

ORLANDO NEBUNUL - CÎNTUL 1 - p.1

ORLANDO NEBUNUL - CÎNTUL 1 - p.2

ORLANDO NEBUNUL - CÎNTUL 1 - p.3

ORLANDO NEBUNUL - CÎNTUL 1 - p.4

ORLANDO NEBUNUL - CÎNTUL 1 - p.5

ORLANDO NEBUNUL - CÎNTUL 1 - p.6

ORLANDO NEBUNUL - CÎNTUL 1 - p.7

ORLANDO NEBUNUL - CÎNTUL 1 - p.8

ORLANDO NEBUNUL - CÎNTUL 1 - p.9

ORLANDO NEBUNUL - CÎNTUL 1 – REZUMAT

ORLANDO NEBUNUL - CÎNTUL I - PROZĂ (TOT)

ORLANDO NEBUNUL - CÎNTUL 1 - VERSURI (TOT)

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